L'Intervallo Salesiano » Blog Archives

Author Archives: Alessandro Gravina

Trenta anni fa l’ Italia dice no al nucleare

Fu proprio un italiano, il fisico Enrico Fermi, a creare il primo prototipo di reattore ad energia nucleare controllata servendosi di uranio e grafite pura, nell’ ambito del progetto Manhattan che portò alla formazione della prima arma nucleare da parte degli americani vincitori del secondo conflitto mondiale. In Italia, invece, si dovranno attendere i primi anni sessanta affinché si costruiscano le prime centrali nucleari. Si trattava di impianti di origine anglo-americana ed erano più che altro dei prototipi. Le prime strutture furono innalzate a Latina, a Sessa Aurunca (CE) e a Trino (VC) tra il 1963 e il 1965. Un’ altra centrale elettronucleare fu varata a Caorso (PC) nel 1970. Essendosi dotata di strutture altamente innovative come quella di Sessa Aurunca, l’ Italia risultò come terza nazione produttrice di energia elettrica di derivazione nucleare nel 1966 e questo nuovo tipo di fonte energetica riuscì a coprire il 4% del fabbisogno nazionale. Nel 1975 e nel 1982 furono introdotti due progetti per diffondere la componente nucleare e si arrivò a progettare ulteriori centrali. Questi piani subirono una battuta d’ arresto all’ inizio degli anni Ottanta in seguito a incidenti come quello di Three Mile Island del 1979 negli Stati Uniti e quello di Chernobyl (1986) nell’ allora Unione Sovietica. Quest’ ultimo specialmente ebbe un grande impatto mediatico nei confronti dell’ energia elettronucleare. Non a caso il popolo fu chiamato l’ 8 e il 9 novembre alle urne per decidere se concedere o meno al CIPE (Comitato interministeriale per la programmazione economica) il potere di decidere la localizzazione degli impianti, l’ abrogazione dei contributi ai Comuni ospitanti complessi nucleari e il divieto imposto all’ ENEL di partecipare alla costruzione di strutture nucleari  in paesi esteri. L’ opinione pubblica si dimostrò nettamente a sfavore e ciò decretò temporaneamente  il fallimento del progetto in Italia. Negli anni successivi ci fu un acceso dibattito sempre riguardo questa fonte di energia e si arrivò ad un referendum nel 2011. Le consultazioni portarono sempre ad un esito negativo e ciò portò al definitivo smantellamento dei siti, tuttora in corso.

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Accade oggi

L’ 11 Novembre 1918 viene firmato, in un vagone ferroviario in prossimità di Compiegne in Francia, l’armistizio che proclama la fine dei combattimenti della Prima Guerra Mondiale.

 

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Le origini della festa di Halloween

Halloween viene spesso associato alle immagini della zucca illuminata dall’interno (la cosidetta jack o’Lantern) oppure al tradizionale trick or treat, quando bambini mascherati bussano ad ogni porta per chiedere dolcetti e caramelle. La festività del 31 Ottobre ha radici molto antiche che risalgono ad un’antica celebrazione pagana di origine celtica, soprannominata Samhain. Le popolazioni pagane del Nord Europa consideravano questo giorno dell’anno la fine dell’estate, in cui ogni membro delle tribù si riuniva attorno al Fuoco Sacro sia per ringraziare le divinità sia per commemorare gli spiriti degli antenati morti. Questi riti vennero influenzati dalla conquista romana e la successiva evangelizzazione di quelle terre che portò ad una sorta di cristianizzazione della celebrazione con l’introduzione del Giorno d’Ognissanti verso la fine del IX secolo. Tuttavia l’antico rito non fu esautorato del tutto, non a caso venne istituzionalizzato il Giorno dei Morti, alludendo al culto dei morti legato alla cultura celtica. Nell’ Ottocento, in Irlanda, ci fu una grande epidemia che costrinse molti irlandesi ad emigrare negli Stati Uniti, formando una massiccia comunità che portò alla diffusione di numerosi costumi, tra cui proprio Halloween. Da quel momento la festa sarà pubblicizzata in spot e film e si affermerà definitivamente come momento di aggregazione e divertimento.

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Per amore del mio popolo non tacerò

Don Peppe Diana è stato un modello di legalità e di lotta contro la criminalità organizzata e quel sistema che spadroneggia la nostra terra e che, solo con un esempio come lui, è possibile sconfiggere.

Quest’anno è ricorso l’anniversario dell’uccisione di Don Giuseppe Diana, conosciuto da tutti come “Don Peppe”. Assegnato alla Chiesa di San Nicola a Casal di Principe, si rese immediatamente conto della gravità della situazione in cui il suo paese e in generale l’intero Agro aversano vigeva, egemonizzato dal clan dei Casalesi guidato da Francesco Schiavone e completamente abbandonato dalle istituzioni. Don Diana invece non si piegò, comprendendo che la sua gente aveva bisogno di lui ora più che mai. Alle parole della predica, decise di far seguire i fatti, creando un centro di accoglienza, negando i sacramenti a persone colluse con la camorra, e ribellandosi a questa barbara logica criminale in una serie di scritti intitolati Per amore del mio popolo non tacerò, da cui ho preso il titolo per questo articolo; in esso denuncia la camorra come una forma di terrorismo, uno stato parallelo che ha imposto le sue leggi inaccettabili a causa della deficienza delle istituzioni civili. Don Diana è un esempio di “ Chiesa attiva” che non limita il suo impegno pastorale alle sole funzioni celebrative, bensì ampliando il suo impegno al bene della comunità, come fecero prima di lui Don Pino Puglisi, impegnato per difendere i bambini del quartiere Brancaccio di Palermo dalle grinfie dei mafiosi per poi essere assassinato, e Oscar Romero, energico arcivescovo di San Salvador ammazzato perché si oppose alla dittatura militare nel suo paese. Don Diana fu ucciso il giorno del suo onomastico, mentre si preparava per celebrare la messa. La sua morte non ha segnato la fine, bensì solo l’inizio: oggi molte associazioni, scuole, comitati portano il suo nome. Il loro obiettivo è perseguire la strada che don Peppe ha tracciato e dimostrando che il suo sacrificio non è stato vano.     

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Il caso Regeni: le ombre sulla morte del ricercatore friulano

Il 3 febbraio è stato trovato a bordo di un auto il corpo con evidenti segni di torture di Giulio Regeni, 28 anni, accademico dell’Università di Cambridge, in viaggio al Cairo per una tesi di dottorato sui movimenti sindacali di opposizione nel Paese arabo.

Sono passati 5 anni dalla Rivoluzione del 25 gennaio, nell’ ambito della cosiddetta Primavera Araba, che ha deposto il dittatore Hosni Mubarak, ma tuttavia la libertà tanto auspicata dai dimostranti è ancora un miraggio. Nelle elezioni del 2012 è stato eletto presidente Mohamed Morsi, candidato del partito dei Fratelli Musulmani, poi rovesciato da un colpo di stato nel luglio del 2013 che ha portato al potere la giunta militare retta da Abdel Fattah al Sisi con il lasciapassare dell’ Occidente. L’ attuale governo viene accusato di aver arrestato e torturato gli oppositori politici di gruppi che hanno anche partecipato alla Rivoluzione, di aver imposto limitazioni sulla libertà di stampa e di chiudere un occhio sugli abusi della polizia.
E’ questo lo scenario che Giulio Regeni ha trovato al suo arrivo in Egitto in qualità di ricercatore per la sua tesi di dottorato sui sindacati indipendenti e di sinistra, posti sotto ferreo controllo da parte dei servizi egiziani, il Mukhabarat. La ricerca è stata approvata dai suoi suoi tutor: le professoresse di Cambridge Anne Alexander, nota negli ambienti accademici per aver pubblicato uno studio che invita all’alleanza partiti di sinistra e i Fratelli Musulmani ( dichiarati fuorilegge ) e Maha Abdelrahman, esperta in Egitto. Queste ultime, in seguito alla notizia della morte del ragazzo, hanno raccolto 4600 firme in una petizione per chiedere di far luce sulla morte di Regeni e anche degli abusi, delle torture e dei rapimenti forzati che avvengono all’ordine del giorno nelle carceri. Arrivato al Cairo, pare che Regeni avesse preso contatti con Hoda Kamel, attivista egiziano, grazie al quale assiste a riunioni sindacali. Sarebbe stato in queste occasioni che sarebbe stato preso di mira da agenti in borghese. Il 25 gennaio avrebbe dovuto incontrarsi con Hassanein Kishk, uno dei leader della sinistra anti-governativa; è proprio da questo momento che le tracce del ragazzo si perdono nel nulla, almeno fino al 3 febbraio, giorno in cui viene ritrovato il suo cadavere barbaramente ucciso.

Nonostante le ripetute richieste da parte del governo italiano di far luce su questo fatto di cronaca internazionale, la controparte egiziana ha sempre ribadito con ipotesi equivoche ed improbabili quali una vendetta criminale o servizi deviati. Ciò che appare abbastanza chiaro è che Giulio Regeni sia stato ucciso a causa dell’ ambito della sua ricerca alquanto “scottante” e da ciò che emerge dall’ autopsia sembra che sia stato ammazzato da professionisti della torture e esperti di evizie di ogni tipo.

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La storia della pena di morte in Italia

Il 4 marzo del 1947, tre balordi, colpevoli di una  tragica rapina che costò la vita a dieci persone, furono fucilati mentre di lì a poco nel Parlamento si arriverà all’ abolizione di una pratica barbara e indegna per un paese civile. Come si arrivò a eliminare la pena capitale nel nostro Paese?

All’indomani dell’Unificazione d‘Italia, il neonato Parlamento si trovò diviso tra abolizionisti e favorevoli alla pena di morte. A prevalere furono i primi con la promulgazione del Codice Zanichelli nel 1889. Con l’avvento del fascismo, Mussolini la reintrodusse nel 1926, punendo i colpevoli di reati contro lo Stato, di attentati alla vita di membri della famiglia reale e del capo del governo, essendo Mussolini stesso vittima di diversi attentati alla sua persona. Un nuovo decreto entrato in vigore nel 1931 (Codice Rocco), aumentò il numero di reati punibili contro la morte, tra cui moli reati comuni. Con la fine della guerra e con la sconfitta dei nazifascisti, l’Italia si trovò in uno stato di caos, per questo si decise di mantenere in vigore anche se in maniera temporanea la pena capitale per i colpevoli di “collaborazionismo” con i soldati tedeschi. Si arrivò finalmente con l’abolizione il 4 marzo 1947, esattamente 69 anni fa.

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Sesso debole…ne siete sicuri?

L’8 marzo è stato il giorno della Festa della donna; mimose a parte, questo giorno è un simbolo della lotta del “gentil sesso” per ottenere pari dignità e pari diritti rispetto alla controparte maschile.

E’ cosa abituale vedere una donna uscire da sola, andare a votare, presiedere incarichi pubblici e godere di una relativa libertà. Tutto questo, che hai nostri occhi appare normale, fino alla prima metà dell’ Ottocento era solo un’utopia, un miraggio che sarebbe forse rimasto tale se non fosse stato per donne forti e coraggiose che combatterono per questa causa con strenua determinazione: le “suffragette”, chiamate cosi perché chiedevano l’estensione del diritto di voto (del suffragio appunto) anche per le donne. Il movimento, fondato nel 1869, si diffuse a livello nazionale, ma non ottenne l’appoggio degli uomini; le suffragette non si diedero per vinte e organizzarono una protesta ancora più attiva e in alcuni casi addirittura violenta, incatenandosi alle ringhiere, bruciando cassette postali, ma anche stazioni ferroviarie, arrivando a scontri con la polizia che finirono con molti arresti. Intanto il movimento aveva guadagnato popolarità diffondendosi anche negli Stati Uniti. Tuttavia, dobbiamo aspettare la Prima Guerra Mondiale, con le donne che lavoravano in fabbrica al posto degli uomini partiti per il fronte, per vedere riconosciuto il tanto ambito diritto di voto, approvato dal Parlamento per tutte le donne dai 21 anni in su.

Non dobbiamo dimenticare, però, che in certe parti del mondo le donne sono ancora sottoposte all’uomo e continuano a subire violenze domestiche e non, ormai quasi all’ordine del giorno; basti pensare che solo in Italia le donne vittime di violenza sono circa 7 milioni. Questi sono, a mio avviso, gli strascichi di una mentalità ormai vecchia secondo la quale le donne sono considerate come delle bambole nella mani dei loro spietati aguzzini, in una sorta di sudditanza psicologica. Quanto altro tempo bisognerà aspettare affinché le donne di oggi si ribellino a tutto ciò?

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